A voi un mio breve racconto, dalle atmosfere sospese tra Oriente e Occidente. Spero vi piaccia.
Non ricordava come l’avesse notata, la prima volta. Ma ricordava che se l’avesse conosciuta da sempre non sarebbe stato così differente.
Nella buia alba – modello invernale standard – in dotazione alla assonnata, abulica umanità che espia la quotidiana maledizione del lavoro esterno alle tane, quando il cielo è di un nero luminoso e lucente e l’ovatta soffocante e umida della nebbia penetra le gole e sferza i cervelli, lei era lì, figuretta immobile e malinconica tra le porte aperte del bus, raggomitolata nel liso cappottino grigio dai baveri alzati, la linea sinuosa delle chiome lucide ad accarezzarle la stoffa sulle spalle, come l’ala bagnata di un pennuto intirizzito. Non un gesto, né un fremito, dalla punta schiacciata del nasino gelido alle scarpette da basket chiare e infangate, all’agile plastica posa delle magre gambe fasciate nei jeans, leggermente flesse l’una sull’altra, a sostenere l’esiguo peso di una creatura minuta ma ferma. E forse era proprio questo a farla apparire forte, la sfida di quel corpicino all’acqua e all’inverno, il suo silenzioso urlare agli scrosci di pioggia ventata che non era quello il suo mondo... lei che era cresciuta nel sole accecante e nei riverberi delle sabbie candide di spiagge lontane, incoronate di palme e di giungle.
Proprio così. La banalità di tanti altri sogni identici nella mente di ognuno dei suoi osservatori era nei suoi occhi, sul suo viso. Ma lì il sogno non era banale come nel cervello di chi la circondava: quel paio d’occhi a mandorla, a tratti nascosti dall’ala bruna dei lunghi capelli, il naso largo e breve adagiato nel mezzo del volto e la boccuccia sporgente e carnosa bloccata nel triste sorriso che solo gli orientali offrono immancabilmente agli sconosciuti, irraggiavano anima e forza che forse nessuno poteva cogliere per davvero. Muoveva piano le spalle e una gamba e poi, con la grazia e l’eleganza di una bajadera disoccupata, cosciente di doversi appiattire - e non solo per una vergogna sconosciuta – faceva il suo ingresso discreto nel microclima denso di palpebre gonfie e grassi colpi di tosse, insieme con le poche molecole di nebbia imprigionate nella sciarpa di seta a motivi bianchi e rossi; e il suo arrivo refrigerava per un attimo la pena collettiva del vivere alle sei di un mattino d’inverno. Le porte si richiudevano e il bus ripartiva tra i suoi sorrisi imbarazzati e la curiosità di esotico volgare e vorace di impiegati balordi. L’incantesimo era terminato nella stessa maniera nella quale terminava ogni volta, tra le perverse manate oculari del popolo della vettura.
Le era stato vicino qualche volta, gli occhi fissi sul quotidiano nel disperato tentativo di mettere a fuoco, tra i fumi fisiometabolici, un titolo o una foto bucherellata. L’aveva sentito, inizialmente senza capire da dove provenisse, quel profumo lieve, fatto di carne e di acqua, quel senso leggero di balsamo tiepido e vivo che gli invadeva le meningi, procurandogli una piacevolissima sensazione di trabalzo, distinto dal rollìo stradale. Ed era come se l’avesse sempre aspirato in ognuno dei rari momenti di gioia della sua vita. Era lei... era qui. Morbida, come sveglio poteva immaginarla, nel tocco convulso ed instabile delle rispettive maniche di cappotto, lucida come le gocce di nebbia che la mano morbida dei suoi capelli gli trasferiva sul volto in schiaffetti indolori. A fine gennaio, quando la luce comincia ad anticipare le prove generali, aveva preso l’abitudine di piazzarsi vicino al vetro e scostare il vapore per distinguere, tra lo specchio deformante delle gocce liquide e le tracce polverose di quelle rinsecchite, il piccolo profilo nero che si stagliava, avvicinandosi contro il moto e la luce, in mezzo agli alberi zuppi. Per qualche istante, proprio quando era grande abbastanza, le piante e uno spigolo rivestito di gomma sporca lo inghiottivano avidi, per poi restituirlo agli occhi oltre il sipario aperto delle porte automatiche; l’incanto si ripeteva ogni giorno immutato, con la magia solenne e sommessa di un rituale.
Non era bella, Li Chi. Il nome glielo aveva strappato l’invadenza insolente di un pendolare più rozzo e importuno della media. Ma una volta uscito dalle labbra sorridenti, quel nome aveva respinto l’approccio grossolano con la forza di quel sorriso vacuo che si allontanava allargandosi nella luce timida e spaurita delle pupille marroni, perse poco al di sopra dell’arma da difesa di quel sorriso. Ed era stata l’ultima, passeggera, esile vittoria che la curiosità di quell’uomo aveva conseguito, prima di venire spazzata dall’inarcarsi leggero e implacabile delle labbra. E poi quella parola – Siam – antica come l’onore millenario di re dimenticati, distante e quasi altezzosa nei confronti della presente realtà geopolitica, che sembrava il perfetto sigillo all’emblema della sua purezza thai. Mistero dolce e inestricabile come la quota di sangue cinese che le scorreva nelle vene, sotto la pelle olivastra, come la nostalgia languida che le emergeva a ondate dalle orbite assenti, mistero risuonante di cimbali e odoroso di fiori di mango e ninfee affogate tra le brume d’Europa. Mistero della vita di Li Chi.
Mistero che aveva rischiato di restare inintellegibile... non per molto, però, la dolcezza delle consapevolezze di entrambi era rimasta sospesa tra gli agili aghi del dubbio. L'esitazione aveva presto lasciato spazio alla gioia di viversi compresi, capiti e protetti, due fragili aironi di lago che stendono le ali inspirando la freschezza delle rose dell’amore. E Li Chi era diventata radiosa nel marrone intenso dei suoi tristi occhietti a mandorla, ansante di voglie e tremori sconosciuti, sottomessa e padrona come solo l’Oriente insegna. Non era questa la felicità? Li Chi era un raggio di luna, una magica stella cadente ad illuminare la notte del presente, Li Chi era dolce, Li Chi ora era bella da impazzire. La prima volta che avevano fatto l’amore aveva pianto, di quel suo piccolo pianto garbato e silenzioso. La personcina scossa dai fremiti dell’intima coscienza di fiore colto e sciupato per sempre. Ma anche quello era un pianto benefico e ristoratore, fresca rugiada di prato, linfa vitale di foglie, primavera di foresta. Li Chi baciava donandosi al mondo, che la riceveva attraverso il suo uomo, fortificandosi del dono ineffabile dell'amore speciale, come solo può essere speciale l'amore di ogni donna, che sogna e che vive e realizza il suo sogno. Li Chi amava lui ed il mondo, e il mondo amava Li Chi, forse come, quanto e di più di come avrebbe potuto mai farlo lui: lo vedeva nel riflesso degli occhi di Li Chi. Potenza dell'amore di Li Chi, la gratitudine dei loro cuori lasciava spazio alle dolci ansie di – indegno – possesso. Indegno e ingiustificabile, se non nei grovigli della passione che attanaglia le anime nell'estasi reciproca, indissolubile come la carne che unisce i corpi dei gemelli che portano il nome della terra di Li Chi. Due corpi in uno... una sola anima nel mondo. E gli dava quasi fastidio che l'anima di Li Chi partecipasse di quella del creato, Li Chi che amava il sole, Li Chi che odiava la pioggia, Li Chi che alzava il visino al cielo e rideva delle sue piccole risatine senza le erre, Li Chi che era lì con lui, triste e felice al tempo stesso, matura e al tempo stesso infantile, di una saggezza antica: la saggezza degli anziani dagli occhi a mandorla, la saggezza del popolo di Li Chi, la saggezza dei padri e dei bambini del mondo.
Diceva a se stesso – scherzando – che forse tutto era successo proprio a causa dei suoi stessi occhi a mandorla. Ma una semplice sindrome di Down non può esercitare questo magico potere... e poi Li Chi non li aveva mai visti, i suoi, di occhi a mandorla, perchè Li Chi era cieca dalla nascita. Ma questo non le aveva impedito di guardargli dritto nell’anima, alla ricerca del vero amore che vi albergava da sempre, animando a poco a poco il principe delle favole dentro di lui, per viverla, comprenderla, amarla e starle accanto per sempre.