Come già accaduto altre due volte nella storia recente del cinema italiano, OLTREFRONTIERA torna a prestare i suoi suggestivi arredi alle scene ed al lavoro di un prestigioso regista.
Era successo nel 1997 con il funambolico “Nirvana”, e poi di nuovo nel 2010, con l’intimista “Happy family”, entrambi per la direzione di Gabriele Salvatores.
Nel primo, pregiate e rare architetture d’epoca rottamate da vecchie residenze punjabi e rajasthani andavano a formare l'inquietante panorama metropolitano sotterraneo della pericolosa “Bombay City”, vale a dire i bassifondi ipertecnologici e cyberpunk all'interno dei quali si calavano con scanzonata ironia i simpatici hackers senza scrupoli protagonisti della bizzarra vicenda; nel secondo invece, sofisticate madie mongole decorate e dipinte costituivano i rarefatti scenari domestici dei loft e degli appartamenti trendy in cui varie generazioni di cittadini di una Milano annoiata e stanca usavano dialogare a lungo tra loro, nella continua ricerca, in se stessi e negli altri, di un senso definitivo alle loro ovattate esistenze.
In questo scorcio di apertura di 2014, ad ulteriore conferma di una bella e duratura connotazione di identità estetica che riesce ancora una volta a rappresentare efficacemente la sensibilità ed il gusto raffinato dell’Italia viva che cambia, fino a giungere a simboleggiare in modo pressoché emblematico alcune delle sue più attuali icone di stile, è la volta delle sedute tradizionali cinesi dal taglio minimale e geometrico che popolano le isolate ville milionarie de “Il capitale umano” di Paolo Virzì, per l'occasione al suo primo approdo cinematografico tra le nebbie e i misteri della Brianza.
Prima di affrontare alcune delle sfaccettate chiavi di lettura di un plot narrativo le cui implicazioni hanno immediatamente generato anche numerose polemiche e risentimenti da parte del mondo della politica e dell’amministrazione locale lombarda, concentriamoci proprio sull’introduzione di questa trama discussa e controversamente valutata.
Tutta la storia si svolge intorno alla figura del piccolo agente immobiliare Dino Ossola (il camaleontico Fabrizio Bentivoglio), uno squallido arrampicatore sociale determinato a sfruttare il legame della figlia adolescente Serena (la giovanissima Matilde Gioli) con Massimiliano (il giovane Guglielmo Pinelli), viziato rampollo del cinico magnate Giovanni Bernaschi (il bravissimo Fabrizio Gifuni). Il tutto mentre quest'ultimo vive con malcelato disprezzo l'interessata amicizia ed i goffi, maldestri tentativi di Dino di entrare e farsi accettare nel mondo dorato del grande business e della grande finanza.
Sullo sfondo, le rispettive compagne dei due. Da un lato Roberta (la sempre espressiva Valeria Golino), nuova donna di Dino con un figlio in arrivo, il cui lavoro di psicologa in una struttura pubblica la tiene vicina al mondo della gente umile e le lascia chiaramente intendere anche tutti i problemi della figliastra infelice ed inquieta (ahimè invece invisibili agli occhi di Dino, letteralmente accecato dai propri ambiziosi progetti). Dall'altro Carla (la seducente Valeria Bruni Tedeschi), ex attrice drammatica ed attuale sfaccendata moglie di Giovanni, che, sprofondata nel lusso e nella solitudine come la principessa di una favola triste, sembra affannosamente implorare con ogni suo gesto l'attenzione e l'approvazione dei vaghi interlocutori della sua quotidianità, che siano il marito distratto da complicati e incomprensibili affari sempre più importanti di lei, il figlio competitivo ed ansioso, le pseudoamiche come lei ricche e come lei distanti, fino a giungere ai beffardi e aggressivi consiglieri di amministrazione del teatro di provincia in rovina il cui azionariato le è stato regalato da Giovanni come passatempo e trastullo, e finanche al professor Donato Russomanno (l'impeccabile Luigi Lo Cascio), sfortunato e tormentato intellettuale con il quale Carla vivrà la fugace e subito conclusa avventura di una mezza nottata.
Ma l’immancabile scherzo del destino non tarderà a fare la sua comparsa nelle giornate dei nostri, sotto le spoglie di un poveraccio in bici tragicamente investito dai ragazzi nel corso di una delle loro notti brave: le temibili, devastanti conseguenze giuridiche di questo dramma inaspettato e destabilizzante metteranno infatti ognuno di fronte alle proprie responsabilità, orientando le scelte dei singoli sulla base delle loro traballanti etiche personali duramente messe alla prova. E qui mi fermo, per non togliere, a chi tra i lettori non l’avesse ancora fatto, la voglia di andare a vedere il film gustandone le tante sorprese del finale.
Liberamente tratto e adattato da un thriller di Stephen Amidon ambientato originariamente in New England, e sapientemente girato con la tecnica dei flashbacks ripetuti e incrociati a mostrare sempre lo stesso arco spaziotemporale, ma centrati ogni volta sul punto di vista di un personaggio sempre diverso (avete presente la spy story americana "24", quella con Kiefer Sutherland come protagonista? Beh, montato proprio come quella!), "Il capitale umano" rappresenta senza dubbio, sia in fase estetica (e dunque anche, ma chiaramente non soltanto, per l'apporto OLTREFRONTIERA) che soprattutto per i suoi contenuti importanti, una delle prove meglio riuscite di Virzì, che di certo dovrà faticare molto per eguagliarla con la prossima.
Contenuti importanti che i tanti riscontri polemici seguiti all'uscita del film hanno a mio avviso perso di vista e sminuito, concentrandosi sulla location geografica come se l’opera volesse esclusivamente raccontare - se non addirittura svilire - un territorio, anziché portare in scena dei tipi universali, come si conviene a ogni dramma che si rispetti.
E restando su questo argomento, mi si consenta in conclusione di ergermi a polemico tra i polemici, con alcuni dei quali ho già tra l’altro avuto occasione di argomentare pedestremente che, di questo passo e su questa falsariga, anche ad esempio il magnifico Montalbano televisivo di Sironi potrebbe mandare su tutte le furie qualunque appassionato ed amante della bella Trinacria.
Ebbene agli stessi io oggi ancora e più aulicamente rispondo scomodando addirittura il Bardo di Stratford-upon-Avon… noi tutti sappiamo che William Shakespeare ambientò diplomaticamente in Danimarca e non in Inghilterra il suo scomodo, inglesissimo Amleto (calma, eravamo all’alba del diciassettesimo secolo). Riflettiamo invece però su che che cosa disse il rozzo becchino alle prese con lo scavo della fossa di Ofelia all’inconsapevole Principe di Elsinore capitato in incognito sulla tomba della sua amata. Disse che il principe Amleto (che guarda caso gli stava davanti in persona, senza tuttavia che il villano potesse riconoscerlo) era stato mandato in Inghilterra perché fosse curato dalla sua follia; ma che quand’anche non ne fosse guarito affatto, lì non se ne sarebbero mai accorti, perché tanto… gli inglesi sono tutti matti anche loro!
Chiaro? Si sono forse mai offesi gli inglesi, contemporanei e posteri di Shakespeare, per questa pur feroce battuta? E perché mai allora (con tutto il sacrosanto, immenso rispetto per il Sommo d’Oltremanica, al quale ho qui osato indegnamente paragonare il pur eccellente regista toscano) perché mai - dico - dovrebbero offendersi allora oggi i lombardi contemporanei di Virzì? E va bene, io ho voluto scherzare un po’, ma voi invece andateci sul serio, al cinema a vedere “Il capitale umano”; fidatevi e vi prometto che non ne resterete delusi!